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Intervento introduttivo alla Camera dei Deputati

Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Camera dei Deputati, Roma, 26 marzo 2015

È un onore per me essere invitato qui al Parlamento italiano, per la prima volta come Presidente della Banca centrale europea.

In questo momento la situazione congiunturale e le prospettive a breve termine dell’area dell’euro sono più favorevoli che negli ultimi anni. Vari fattori contribuiscono ad accrescere la fiducia che la ripresa, finora debole e disomogenea nell’area, acquisti forza e stabilità e che l’inflazione ritorni in modo durevole verso l’obiettivo stabilito dal mandato della BCE: un livello inferiore ma prossimo al 2%.

Tre principali fattori confortano le aspettative di ripresa dell’attività economica. Gli effetti positivi della caduta dei prezzi energetici; l’orientamento espansivo della politica monetaria che ha contribuito a ridurre la frammentazione del sistema finanziario e ad assicurare il trasferimento del basso costo del denaro alle famiglie e alle imprese; le riforme strutturali varate in diversi paesi dell’area dell’euro che, sia pur con differenti velocità e intensità, cominciano a esercitare i loro effetti.

In questa mia introduzione mi concentrerò sul secondo e sul terzo fattore, la politica monetaria e le politiche strutturali. Entrambi sostengono l’attività economica, entrambi sono essenziali, anche se in modi diversi.

La politica monetaria sostiene il ciclo economico, aiuta l’economia ad avvicinarsi al proprio potenziale produttivo. Ma non lo può accrescere, perché esso dipende dalla struttura dell’economia, dipende, appunto, dalle riforme strutturali.

Similmente, la politica monetaria può raggiungere l’obiettivo della stabilità dei prezzi nell’intera area, ma solo le riforme strutturali possono determinare una convergenza reale e duratura delle produttività nazionali. In un’unione monetaria occorrono entrambe; per questo abbiamo bisogno di istituzioni parimenti efficaci nei due ambiti.

1. Il ruolo della politica monetaria nell’area dell’euro

Non molto tempo fa, alla fine del 2011 e nel corso del 2012, fronteggiavamo un contesto molto meno favorevole di quello attuale. Le banche avevano appena avviato il necessario processo di riduzione generalizzata dei debiti dopo la crisi finanziaria. Vivevamo una crisi di fiducia verso i debiti sovrani, la quale a sua volta dava luogo a una forte frammentazione dei sistemi finanziari dell’area lungo i confini nazionali. A ciò si aggiungevano i timori ingiustificati sulla reversibilità dell’euro, che sospingevano ulteriormente verso l’alto i premi al rischio nazionali.

In Italia il rendimento sul BTP decennale eccedeva il 7% alla fine del 2011, a fronte del 2% sul corrispondente titolo in Germania; lo spread raggiungeva di nuovo livelli simili nel luglio del 2012. A metà del 2012 il prezzo della protezione dal rischio ipotetico di un default dell’Italia era di tre o quattro volte più elevato di un anno prima.

Il livello del debito pubblico di un paese influenza lo stato di salute delle sue banche attraverso due canali principali.

Da un lato, il bilancio pubblico è visto come il garante ultimo della solvibilità di una banca: se questa fallisce il bilancio dello Stato è visto come il garante di ultima istanza. Quanto più il debito pubblico è elevato, tanto più questa garanzia è fragile e tanto più le banche dovranno pagare per finanziarsi, oppure tanto più capitale devono avere.

Dall’altro, le banche detengono nei loro portafogli titoli del debito pubblico. Quando la credibilità del debito in un paese viene messa in discussione, come è avvenuto nel 2011 e poi nel 2012 per ragioni diverse, i titoli perdono di valore, la garanzia sovrana si indebolisce proprio quando le banche devono iscrivere forti perdite in bilancio per la caduta nel valore dei titoli. Di conseguenza il credito crolla. Non è un caso che paesi con basso debito abbiano un più alto merito di credito.

In Italia, il costo del credito per le imprese era pari nel luglio del 2012 al 4,1%, rispetto al 3,1% nella media dell’area dell’euro e al 2,9% in Germania. Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria comune non era più uniforme nei singoli paesi.

In realtà questi numeri sottostimano la gravità della crisi creditizia che ha investito l’Italia dalla metà del 2011 fino a qualche mese fa.

In questo contesto, la capacità della BCE di assicurare la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro era seriamente messa a repentaglio. La politica monetaria doveva reagire con una risposta ad ampio spettro, adeguata alla natura multidimensionale della minaccia, basata contemporaneamente su più canali paralleli. Nell’insieme abbiamo conseguito progressi significativi.

Per ripristinare l’efficacia della politica monetaria nell’area occorreva in primo luogo rimuovere i timori ingiustificati di reversibilità dell’euro. Lo abbiamo fatto in due modi. Con le operazioni monetarie definitive (OMD), cioè l’impegno ad acquistare titoli di Stato sul mercato secondario qualora si verificassero situazioni in cui la credibilità dell’euro fosse messa in discussione. Insieme alle altre misure non convenzionali adottate dalla BCE, le OMD sono state determinanti nel ridurre la frammentazione finanziaria.

Egualmente fondamentale è stato, in secondo luogo, il progetto di costituzione di un’unione bancaria, basata sui meccanismi unici di vigilanza, risoluzione e garanzia dei depositi. Ciò ha contribuito ad accrescere la fiducia nella sostenibilità dell’area dell’euro, dimostrando nei fatti che i governi e i parlamenti erano pronti a intraprendere misure correttive per completare l’unione monetaria.

Quando i governi ci hanno affidato la responsabilità del Meccanismo di vigilanza unico abbiamo proceduto a effettuare una valutazione approfondita dei bilanci di circa 120 grandi banche dell’area. Ciò ha indotto molte di loro ad anticipare gli aggiustamenti necessari e a rafforzare i loro bilanci, anche dismettendo attività e aumentando i coefficienti patrimoniali. Ciò a sua volta ha favorito la trasmissione della politica monetaria nell’area.

Ma altri interventi di politica monetaria erano necessari. In giugno avevamo già adottato operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (OMRLT) per sostenere il credito delle banche all’economia.

In settembre, poiché si erano esauriti i nostri margini di riduzione dei tassi di interesse, abbiamo proceduto ad acquisti di attività al fine di allentare le condizioni finanziarie e sostenere l’economia. Abbiamo annunciato il programma di acquisto di “asset backed securities” (ABS) e di “covered bonds”.

In gennaio il Consiglio direttivo ha deciso di introdurre uno stimolo aggiuntivo, quando abbiamo annunciato che avremmo acquistato anche titoli di Stato. Questo rappresenta un fattore chiave per una piena ripresa dell’attività economica e perché l’inflazione non resti troppo bassa troppo a lungo. Questa decisione è fondata su due considerazioni.

Primo, la base su cui poggiava l’inizio di ripresa appariva ancora troppo fragile per assicurarci che l’inflazione sarebbe tornata a un livello inferiore ma prossimo al 2%. Secondo, il potenziale espansivo degli interventi di politica monetaria decisi tra giugno e ottobre era ancora incerto, perché i loro effetti dipendono dalle decisioni delle banche di avvalersi dei prestiti dell’Eurosistema, mentre il programma di acquisti di titoli privati non poteva che essere di dimensioni relativamente limitate. L’ammontare dei prestiti concessi dalle due OMRLT era di 212,4 miliardi di euro, nella parte bassa della fascia delle possibili previsioni. Quindi lo stimolo andava rinforzato e doveva divenire più prevedibile e controllabile nella sua quantità.

Il 9 marzo abbiamo iniziato queste operazioni sui titoli di Stato continuando con quelle su ABS e covered bonds. Complessivamente contiamo di raggiungere i 60 miliardi mensili previsti per marzo anche se abbiamo iniziato solo il 9 [1].

A questo stadio non ci sono segnali di scarsità di titoli e la liquidità dei mercati resta ampia.

Intendiamo continuare con questi acquisti almeno fino a settembre 2016 e, in ogni caso, finché non vedremo un tracciato dell’inflazione che si avvicina durevolmente al nostro obiettivo.

Questa valutazione sarà fatta guardando ai trend e non ai singoli valori numerici, che potrebbero essere il frutto di fenomeni temporanei.

Le prime evidenze disponibili indicano che le misure adottate sono state nel loro insieme efficaci. I tassi attivi praticati dalle banche alle imprese hanno iniziato a diminuire nella seconda parte dell’anno, con una riduzione della loro dispersione fra paesi. Le riduzioni dei tassi di interesse sui mercati si trasmettono adesso lungo l’intera intermediazione finanziaria. La contrazione creditizia recede. Il minor costo dei finanziamenti – debito e azioni – implica che progetti di investimento prima non profittevoli divengano convenienti.

La crescita del prodotto interno lordo prevista degli esperti della BCE è stata aumentata fra dicembre e marzo di 0,5 punti percentuali per il 2015 e di 0,4 punti per il 2016. L’inflazione prevista quest’anno per l’intera area dell’euro è nulla, in larga misura a causa della flessione dei prezzi del petrolio, ma le stime per gli anni successivi sono state alzate all’1,5% nel 2016 e all’1,8% nel 2017.

Il quadro che si profila conforta l’ottimismo sul contributo che la politica monetaria sta fornendo per rafforzare la ripresa ciclica e sull’azione del Consiglio della BCE nel perseguimento del suo mandato.

2. Dalla politica monetaria alle politiche strutturali

Sappiamo però che da sola la politica monetaria non può assicurare una crescita stabile, strutturale. Non può neanche assicurare una crescita uniforme perché non è lo strumento adeguato per correggere le divergenze fra paesi che discendono da un basso potenziale di crescita e da una disoccupazione strutturale.

Al contempo non possiamo attenderci che queste divergenze siano affrontate con strumenti quali trasferimenti permanenti da parte dei paesi economicamente più forti. L’area dell’euro non è stata creata per essere un’unione dove coesistono creditori permanenti e debitori permanenti. È un’area in cui ogni paese, sfruttando i propri vantaggi comparati nonché le potenzialità offerte dal mercato unico, e convergendo ai livelli più elevati di competitività e di reddito, deve saper reggersi da solo sulle proprie gambe.

Qui entrano in gioco le riforme strutturali.

Esse sono essenziali per elevare la crescita potenziale, che è la base di una prosperità sostenibile, per rendere le economie più resistenti agli shocks, meno divergenti in caso di crisi. Questi ultimi aspetti sono assai più importanti oggi che in passato per via dell’elevato debito accumulato e dell’invecchiamento demografico.

Eppure, in diversi paesi dell’area la crescita potenziale si è smorzata già prima dell’introduzione dell’euro. In Italia, essa si è ridotta dal 2,5% registrato in media nei primi anni ’90, all’1,5% nel 1999. La diminuzione è continuata anche dopo; l’FMI e altre istituzioni stimano che essa sia oggi pressoché nulla.

Come possiamo invertire questo trend?

Elevare la crescita potenziale significa essenzialmente aumentare l’offerta di lavoro (il numero di ore lavorate nell’economia) e la produttività (quanto ciascuno produce per ora lavorata). Dato l’invecchiamento demografico, i progressi possibili sul primo fronte sono limitati; dobbiamo quindi concentrarci sul secondo.

Nella maggioranza dei paesi europei e in Italia in particolare, i tassi di crescita della produttività sono molto modesti. Dal 2000 al 2013 la produttività del lavoro [2] nell’area dell’euro è cresciuta cumulativamente del 9,5%, in Italia di appena l’1,3%, negli Stati Uniti del 26,1%. La produttività totale dei fattori [3], che stima l’efficienza nell’utilizzo degli input impiegati nei processi produttivi, è cresciuta solo dell’1,1% nell’area dell’euro, è diminuita del 7% in Italia, è aumentata del 10,5% negli Stati Uniti.

La produttività può essere accresciuta con l’ingresso di nuove imprese che utilizzano tecnologie più efficienti e attraverso una riallocazione delle risorse fra imprese già esistenti. I benefici del progresso tecnico generalmente si manifestano nel lungo periodo, perché l’utilizzo efficiente di una nuova tecnologia richiede spesso tempi di apprendimento molto lunghi, mentre una riallocazione delle risorse può innalzare la produttività già nel breve periodo, dato che implica uno spostamento di risorse tra imprese già attive.

Se vogliamo accrescere la produttività rapidamente, il fattore chiave è la riallocazione. Analisi a livello di impresa condotte nell’area dell’euro suggeriscono che vi sono ampi margini di miglioramento [4]. Nei singoli paesi vi sono poche imprese altamente produttive mentre sono numerose quelle connotate da un basso livello di produttività. È essenziale agire perché queste imprese ad alta produttività possano crescere, perché beneficino di un flusso di finanziamenti adeguati, perché le persone abbiano le competenze necessarie per essere occupate. Per cogliere questi tre obiettivi – crescita, finanziamenti, competenze – occorrono riforme strutturali.

3. Riforme strutturali e riallocazione

Con riferimento al primo obiettivo, la dinamica “up or out” delle nuove imprese che nascono e si espandono è stata rilevata in molti studi come un fattore centrale per la crescita della produttività. Questo processo è facilitato da un favorevole contesto regolatorio e normativo a livello nazionale. Ma non sempre è così nell’area dell’euro. Questo è il motivo per cui sono così importanti le riforme volte a completare il mercato unico e a migliorare l’ambiente in cui operano le imprese. In alcuni paesi le imprese sono ostacolate dalla regolamentazione e da un trattamento fiscale penalizzante che scatta oltre certe soglie. In Italia vi è un’alta concentrazione di microimprese in cui la produttività è nettamente inferiore alla media; vi contribuiscono regolamentazioni che le incentivano a rimanere piccole.

I tempi delle procedure relative ai fallimenti incidono in misura assai significativa sulla velocità con cui vengono finanziati i piani di investimento delle imprese. In Italia si registra la giustizia civile più lenta in Europa. Il tempo di definizione del giudizio in primo grado in materia civile e commerciale è superiore a un anno e mezzo in Italia, mentre richiede 8 mesi in Spagna e solo 6 mesi in Germania [5]. Recenti lavori suggeriscono che un dimezzamento della lunghezza dei procedimenti aumenterebbe la dimensione media delle imprese dell’8-12% [6].

Soprattutto in Italia è cruciale migliorare il contesto in cui operano le imprese. Occorre assicurare regole certe e stabili, la tutela effettiva della legalità, il rispetto dei contratti. L’efficienza della pubblica amministrazione, un buon funzionamento del mercato del lavoro, la promozione della concorrenza sono essenziali. Negli ultimi anni sono stati varati diversi interventi in questi ambiti. È bene proseguire lungo il percorso avviato.

In secondo luogo, condizione indispensabile affinché i capitali possano affluire alle imprese più produttive è un settore bancario sano, in grado di espandere il credito. Ciò implica a sua volta che i prestiti deteriorati debbano emergere rapidamente nei bilanci degli intermediari e che vengano attuate misure per una rapida soluzione del problema. Questo processo è già iniziato con la valutazione approfondita. La BCE guarda con favore a nuove iniziative tese a ridurre il peso delle partite deteriorate nei bilanci delle banche italiane; esse consentiranno di liberare risorse soprattutto a beneficio delle imprese.

Infine, è di importanza cruciale soprattutto saper dotare le persone delle competenze necessarie a trovare un lavoro nelle imprese del futuro [7]. L’Italia, come il resto d’Europa, è immersa in un’economia globale dove il progresso tecnico tende a favorire maggiormente le persone con elevate competenze a scapito di chi è poco qualificato, innalzandone la produttività e la domanda relative.

Già oggi nell’area dell’euro competenze e occupazione sono strettamente correlate. Nel 2013 più del 19% dei lavoratori [8] con un basso livello di istruzione erano disoccupati, ma solo il 7% fra quelli altamente istruiti. Si comprende dunque immediatamente perché istruzione e training debbano fare parte del programma di riforme, al pari del risanamento dei bilanci bancari e della riduzione degli oneri burocratici.

Il miglioramento delle competenze ha anche un’altra dimensione. Quando si allocano risorse ci sono vincenti e perdenti. Ciò genera incertezza, in particolare per coloro che devono cambiare lavoro, accresce più in generale l’incertezza nel futuro. Mi è qui del tutto chiaro che non possiamo assumere esclusivamente il punto di vista dell’efficienza, dobbiamo pensare anche all’equità. Entrambe sono necessarie. Debbono essere conciliate.

Migliorare le competenze è un modo per farlo, perché se da un lato si accresce l’efficienza economica, si creano nuove opportunità di lavoro, dall’altro si rende l’economia più equa, consentendo al maggior numero possibile di persone di cogliere le nuove opportunità che si aprono.

La riqualificazione, il training, l’istruzione devono andare di pari passo con la flessibilità.

Il miglior modo di tutelare i cittadini non è proteggerli dal rischio di perdere il lavoro, ma garantire loro le conoscenze necessarie per trovare più rapidamente un’occupazione migliore. E ciò vale anche nel caso dei disoccupati di lungo periodo che hanno necessità di programmi di riqualificazione.

In questo contesto, le misure di politica monetaria sopra ricordate rafforzano il processo di riforma, stimolano la domanda complessiva rendendo più favorevoli le condizioni sul mercato del credito e le possibilità di riallocazione delle risorse, del lavoro in primo luogo. In sostanza, politica monetaria e riforme strutturali sono complementari.

4. Assicurare la convergenza economica con la convergenza istituzionale

Nonostante l’importanza cruciale delle riforme strutturali per la convergenza economica e per la politica monetaria, esse rimangono quasi interamente una responsabilità nazionale. Un elemento che aggiunge fragilità alla nostra unione. Non c’è oggi modo di garantire che i paesi prendano le misure necessarie per partecipare in maniera adeguata all’unione monetaria. Secondo me ciò deve cambiare.

L’unione monetaria genera una forte integrazione fra i paesi membri e per questo motivo anche un alto grado di vulnerabilità reciproca. Per questo motivo abbiamo sempre applicato il principio secondo il quale se le politiche di un paese hanno effetti di rilievo sui partner devono essere governate da regole o istituzioni comuni. Le regole fiscali, per esempio, discendono da ciò, giacché il default di uno Stato causerebbe danni a tutti gli altri. Credo che sia oggi chiaro che lo stesso principio debba applicarsi anche alle politiche strutturali, in quanto un basso potenziale di crescita genera squilibri macroeconomici nei paesi. La vulnerabilità che ne deriva si riverbera sugli altri paesi dell’area.

Se alcuni paesi non mettono in atto efficaci politiche strutturali si creano permanenti divergenze in termini di crescita e di occupazione. Ci si interroga sulla loro partecipazione all’unione e spesso le domande finiscono per estendersi anche agli altri. Come abbiamo notato in più occasioni negli ultimi anni, essi creano processi di frammentazione che si autoalimentano, con ripercussioni sugli altri paesi dell’unione.

Ne consegue che ciò che accade in un paese non è solo di interesse nazionale, ma riguarda tutti. Ogni membro dell’area ha un interesse vitale a che i suoi partner soddisfino sempre le condizioni per far parte dell’unione. Abbiamo bisogno di un più elevato grado di convergenza istituzionale negli ambiti strutturali rispetto a quanto abbiamo sperimentato in passato [9].

Finora abbiamo sperimentato due diversi modi di governance economica nell’UE.

In alcune aree abbiamo conferito un potere esecutivo alle istituzioni europee: alla BCE per la politica monetaria, alla vigilanza unica (nell’ambito della BCE) per la politica finanziaria, alla Commissione per la politica della concorrenza. In altri campi il potere esecutivo è rimasto a livello nazionale e le politiche sono state allineate tramite l’applicazione di regole da parte della Commissione, come nel caso delle politiche economiche e fiscali.

Ci sono naturalmente molte buone ragioni per cui sono stati utilizzati metodi differenti. Ma qual è stato quello più efficace?

Io credo che poche persone negherebbero che, laddove alle istituzioni europee è stato conferito un potere esecutivo, queste ne hanno fatto buon uso. La politica della concorrenza è stata efficace nei confronti sia di grandi imprese sia di grandi paesi. La politica monetaria ha conquistato un’elevata credibilità. È ancora prematuro valutare i risultati della vigilanza unica, anche se sono certo che non avremmo avuto un processo di risanamento dei bilanci bancari così efficace senza di essa.

Nel caso dell’approccio basato sulle regole è meno agevole concludere in modo così positivo. Le regole fiscali sono state disattese più volte, la fiducia fra paesi sottoposta a forti tensioni. Le politiche economiche basate sulle regole – come la procedura per gli squilibri macroeconomici – non sono mai state fatte realmente proprie dai politici nazionali.

Mi pare dunque che le conclusioni da trarre dalla recente esperienza siano chiare. Se concordiamo che un’ulteriore convergenza istituzionale nei campi strutturali sia necessaria, dobbiamo porci l’obiettivo di sostituire un sistema basato sulle regole con un altro sistema, basato su istituzioni europee più forti.

Voglio però sottolineare che per compiere questo passo dobbiamo in primo luogo rispettare le regole attualmente vigenti. Per la politica monetaria non abbiamo cominciato creando una nuova istituzione, sarebbe stato impossibile. Avevamo una serie di sistemi basati sulle regole – il serpente, il sistema monetario europeo, gli Accordi europei di cambio – sulla cui base abbiamo poi creato la moneta unica e la Banca centrale europea. Quelle esperienze sono state fondamentali, perché hanno gradualmente costruito la fiducia fra i paesi e favorito una convergenza di opinioni su quale fosse il modo ottimale di condurre la politica monetaria.

Oggi non si tratta di ignorare le regole in nome della superiorità delle istituzioni. Al contrario, solo rispettando le regole possiamo costruire quella fiducia reciproca sulla quale istituzioni future possono essere erette. È essenziale che il Parlamento europeo faccia proprio questo processo, gli conferisca legittimità democratica.

5. Conclusioni

La prospettiva per l’area dell’euro che ho descritto oggi può apparire semplice, ma non lo è. Necessita di visione e di perseveranza. Tutti devono fare la loro parte per far sì che la ripresa si rafforzi e si stabilizzi nel tempo.

Sono altresì consapevole che non dobbiamo perdere di vista qual è l’essenza della politica economica. La crescita economica non è un fine in se stesso, il suo obiettivo è di offrire più possibilità alle persone e di accrescere la prosperità complessiva. Per questo dobbiamo assicurarci che ognuno vi possa contribuire, che efficienza ed equità siano riconciliate, che nessuno rimanga indietro.

C’è chi pensa che per cogliere questi obiettivi sia necessario ridurre il grado di integrazione, che le iniquità derivino da un’Europa che fa troppo. Altri invece desiderano un’Europa più integrata con più solidarietà finanziaria tra le nazioni; ritengono che l’Europa stia facendo troppo poco e che questo sia il problema.

Trincerarsi nuovamente dietro i confini nazionali non risolverebbe nessuno dei problemi che abbiamo di fronte. Dovremmo in ogni caso fare i conti con le sfide demografiche, con la bassa produttività e con l’elevato debito. La disoccupazione finirebbe per aumentare.

Allo stesso tempo, le visioni irrealistiche dell’integrazione europea non sono una risposta. Non siamo un’unione in cui alcuni paesi pagano in modo permanente per altri. Sperarlo ha l’unico effetto di distrarci dalle nostre responsabilità e dalle sfide che incombono a livello nazionale.

La maniera migliore per rispondere ai timori dei nostri cittadini è di tracciare una rotta che sia allo stesso tempo ambiziosa e pragmatica, che implichi ove necessario un’azione a livello nazionale e l’integrazione a livello europeo ove opportuno.

L’impulso impresso dalla politica monetaria, insieme con le riforme e i mutamenti strutturali che i governi devono avviare, sono parte di questo percorso. Contribuirebbero grandemente a creare un’unione più stabile, capace di generare più crescita e più inclusione. Sono sicuro che questo Parlamento, come sempre, avrà un ruolo centrale in questo processo.

  1. [1]Si veda il mio intervento alla Commissione per i problemi economici e monetari (ECON) del Parlamento europeo, Bruxelles, 23 marzo 2015, http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150323_1.en.html.

  2. [2]Valore aggiunto reale per ora lavorata, intera economia (fonti OCSE e EUKLEMS).

  3. [3]Produttività totale dei fattori, intera economia.

  4. [4]CompNet Task Force, “Micro-based Evidence of EU Competitiveness: The CompNet Database”, Working Paper Series, n. 1634, BCE, 2014.

  5. [5]Quadro di valutazione UE della giustizia 2015, Commissione europea, 2015, http://ec.europa.eu/justice/effective-justice/files/justice_scoreboard_2015_it.pdf.

  6. [6]Giacomelli, S. e Menon, C. (2012), “Firm size and judicial efficiency: evidence from the neighbour’s Court”, Working Papers, n. 898, Banca d’Italia, gennaio 2012.

  7. [7]Si veda il mio discorso in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della BCE, Francoforte sul Meno, 18 marzo 2015, http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150318.it.html.

  8. [8]Considerando la fascia di età lavorativa 25-64 anni.

  9. [9]Si veda il mio discorso alla SZ Finance Day 2015, Francoforte sul Meno, 16 marzo 2015, http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150316.en.html.

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